Editoriali

 

L'anno che verrà... buona crisi a tutti
di Renato Cavalli

Presidente Prassicoop
23 dicembre 2008


Caro amico ti scrivo, cantava il grande Dalla, così mi rilasso un po’. Ma come si fa a rilassarsi, visto che l’anno che verrà marca decisamente male? Il clima che si respira ricorda molto quello descritto dalla canzone. Non siamo ancora a “chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra”, ma il CENSIS fotografa un’Italia caratterizzata dalla paura. Certo non sarà più volte Natale, ma per molti, troppi, che perderanno il lavoro sarà una triste “festa tutto l’anno”.
La crisi c’è e si vede, e si vedrà ancora di più l’anno prossimo. Sappiamo tutti che la crisi determina sfiducia e che la sfiducia, a sua volta, amplifica la crisi.
Allora qualcuno propone l’ottimismo e la spinta a consumare come prima ricetta, quasi colpevolizzando il consumatore che non spende come responsabile della crisi. In realtà i motivi per cui i consumatori non spendono sono vari. All’inizio della crisi molti hanno bloccato i consumi per paura che le banche fallissero bruciando i loro risparmi. Poi, rapidamente, tutti hanno capito che in Italia questo rischio non c’era, ma i consumi non sono ripartiti. Come mai? Vigliaccheria dei consumatori o cause reali? Credo che ci siano delle cause più che reali. Almeno tre. Primo: tanti i soldi da spendere non ce li hanno più, per cui il taglio dei consumi non è una scelta ma una necessità. Secondo: tutti sanno che i consumi sono pesantemente influenzati non solo dai redditi attuali, ma dalle aspettative sui redditi futuri. Quasi tutti temono, realisticamente, che il proprio reddito futuro sia più basso di quello attuale: perché hanno già perso soldi in borsa o nei fondi, perché non si fanno più straordinari, perché il credito, se c’è, costa di più e soprattutto perché si teme di perdere il lavoro. Il proprio o quello di qualche familiare
o parente. Per gli italiani la famiglia è importante e quindi, anche se non si ha paura per sé stessi, si cerca di risparmiare per prevenire i problemi dei figli.
Terzo: una certa fetta di consumi, specie quelli voluttuari, era frutto di una specie di ubriacatura, di “festa” permanente da celebrare con spese di immagine e rappresentanza.
Ora che è chiara la sensazione che la festa è finita, perché si dovrebbe andare avanti a festeggiare e spendere?
È chiaro che vanno sostenuti i consumi, ma servono interventi strutturali e non solo la buona volontà dei consumatori.
Dire ad uno che ha paura di perdere il posto di lavoro che deve spendere comunque per tutelare il proprio posto di lavoro è quantomeno umoristico: è come dire che i dipendenti debbono finanziare la propria azienda per “comperarsi” il posto di lavoro.
Ma le cose non vanno perché c’è la crisi, o c’è crisi perché troppe cose non vanno?
Dalla risposta dipende la strategia vincente per uscire dalla recessione. Starsene buoni, aggrappati ai sostegni più solidi che possiamo trovare, aspettando che passi la piena e che si ristabiliscano i vecchi equilibri? Oppure lavorare in apnea per un’uscita “in avanti” dalla crisi, basata su nuovi equilibri più solidi e meno volatili, su un’economia “sobria”, del lavoro, delle cose e dei servizi, anziché su un’economia dell’apparenza, della finanza e della precarietà?
La mia idea è che la risposta giusta è la seconda, anche se è evidente che la crisi, una volta decollata, genera di suo una serie di effetti nefasti, che rendono più diffi cile qualsiasi strategia di recupero.
Ma non è solo la nostra opinione personale.
Il Presidente di Expo Italia Real Estate, Antonio Intiglietta, nel suo editoriale sull’house organ, ha infatti scritto:
“È dunque necessario da parte di tutti gli operatori un atteggiamento leale sulla realtà: in questi anni, invece, la finanza è stata erroneamente considerata come lo scopo della propria attività anziché come uno strumento, attivando investimenti ingiustificati e generando finti scenari, facili guadagni e uno sviluppo solo apparente che con questa crisi si è rivelato in tutta la sua triste realtà di assoluta inconsistenza”.
Siamo di fronte non solo ad una crisi congiunturale, ma ad una crisi strutturale, la cui origine non è solo dovuta ad alcuni errori, o comportamenti sistematicamente improvvidi ed aberranti di banchieri o gestori di fondi, ma anche alla struttura di un sistema non sostenibile sia sotto il profi lo ambientale, sia sotto quello strettamente economico. In pratica si sono creati dei valori “irreali” a più riprese: prima le azioni della new economy, poi prezzi insostenibili per gli immobili, poi i mutui subprime e via dicendo.
Finché i valori crescono si ha un enorme trasferimento di risorse dei risparmiatori ai beneficiari delle vendite speculative, sottraendo risorse alla generalità dei consumi commercializzabili. Quando la bolla scoppia, non c’è più un trasferimento da un soggetto all’altro, ma una vera e propria distruzione di risorse, che ci lascia tutti più poveri.
Non vogliamo assolutamente sposare acriticamente la teoria della decrescita. Tra l’altro sarebbe un insulto per quella stragrande maggioranza dell’umanità che la crescita non l’ha ancora vista e che di tutto ha bisogno salvo che di decrescere.
Per uscire “in avanti” dalla crisi non basta ricostruire e rimettere in moto il vecchio modello di sviluppo. Occorre un modo “sostenibile” di fare funzionare l’economia, non solo sotto il profilo ambientale ed energetico, ma anche sotto quello sociale e culturale.
È chiaro che limitarsi a “rimettere in marcia” un modello economico non globalmente sostenibile come quello che ha portato all’attuale crisi non risolverà i problemi alla radice, ma rischierà di riprodurre di tempo in tempo gli stessi effetti devastanti che stiamo vedendo ora.
È necessario, in un certo senso, inventarsi un’economia diversa, che si basi su equilibri più equi e sostenibili, senza generare i temutissimi effetti della defl azione. Nell’attesa che si trovi tale soluzione (per la quale non si intravvede ancora un modello economico coerente) bisogna comunque sostenere l’occupazione e i consumi, ma in maniera critica. Non è una cosa semplice, ma è una scelta obbligata.
Ed è una delle più grandi sfi de che ci troveremo di fronte di qui in avanti.
L’altro grosso rischio da evitare è che la drastica (ma probabilmente temporanea) caduta del prezzo del petrolio faccia crollare l’attenzione sui problemi di sostenibilità ambientale. Va evitato l’atteggiamento puramente economicistico di valutare la convenienza della sostenibilità solo in termini dei prezzi attuali o prevedibili a breve termine dei vari fattori produttivi e dei costi degli investimenti necessari.
Nel momento che ci dovessimo trovare di fronte ad una vera crisi ambientale (che potrebbe essere la prossima crisi ciclica) il prezzo di fattori oggi considerati pressoché a costo zero (aria, acqua) schizzerà verso l’alto in maniera incontrollabile, e si trascinerà, ad esempio, il prezzo delle parti del territorio a minore rischio ambientale, scatenando non solo una crisi economica inimmaginabile ma anche competizioni violente (legger guerre) per il controllo delle aree “sicure” e “pulite”.