Perché il disastro di Ponte Morandi è una tragedia annunciata

di Enrico  Cisnetto,  Roma  InConTra

Nota : Enrico Cisnetto sul dramma che ha colpito Genova, la sua città. «Una strage figlia della deresponsabilizzazione diffusa a ogni livello, della cultura del non fare, della ideologia del “no a tutto”».

Ecco l’articolo pubblicato  il 15  agosto su Lettera43

 

Caro direttore,
è con le lacrime agli occhi e la rabbia che mi sale dentro che, rispondendo a una tua cortese sollecitazione, ti scrivo questa personale testimonianza sulla tragedia – che considero assolutamente annunciata – di Genova, la mia città. Sono di Sampierdarena, quel ponte l’ho visto nascere, ci sono passato milioni di volte e sotto ci sono le strade della mia infanzia e gioventù. Via Walter Fillak è dove stava la mia scuola. Ricordo l’orgoglio con cui da ragazzo consideravo – consideravamo tutti – quello che abbiamo sempre chiamato il «ponte di Brooklyn» come uno dei segni più tangibili della conquistata modernità della città e del Paese, percependo quanto fosse grande nel mondo l’ammirazione per quel viadotto in cemento armato così avveniristico. Mi piange il cuore per le vittime e le loro famiglie, ma la tristezza lascia il passo a una rabbia irrefrenabile per Genova, brutalizzata da uno stupro inaccettabile, e per l’Italia, ancora una volta schiacciata sotto il peso di tragedie drammatiche come questa.

 

Sono convinto che si tratti di una tragedia annunciata. Ma attenzione, non perché abbia elementi specifici su eventuali deficienze nella manutenzione del viadotto. No, ciò che è annunciato, direi urlato da tanto che è evidente, sta nella deresponsabilizzazione diffusa ad ogni livello, nella cultura del non fare, nella ideologia del «no a tutto». Genova tagliata in due da 200 metri di ponte autostradale crollato è la fotografia, che più nitida non si può, dell’Italia che ha perso l’orgoglio di Paese che vuole stare sul confine della modernità, che vuole creare avanguardia e innovazione, e che invece rincula e si rinchiude autarchicamente in se stesso, dedito ora al rancore nichilista ora a leccarsi le ferite, morali e fisiche, della propria condizione vieppiù regressiva. Un Paese che si scandalizza per ciò che accade – dando sempre la colpa a qualcun altro – e che non si accorge, per ignoranza e idiosincrasia al senso di responsabilità, di ciò che sta per accadere.

 

Ma lo sai, caro direttore, che sono passati più di nove anni dal terribile sisma dell’aprile 2009 a l’Aquila e che, a proposito di autostrade, in questi 3.400 giorni che sono trascorsi non si è trovato il modo di approvare burocraticamente, nonostante che i finanziamenti ci siano, i progetti per la messa in sicurezza della A24 A25 – lì i viadotti sono 170 – che pure la Protezione civile ha definito come collegamenti indispensabili per eventuali azioni di soccorso, considerato che da allora si sono succedute circa 50 mila scosse di terremoto all’anno? E non ti sfugga che se ora Genova rimarrà paralizzata per mesi è perché la famosa Gronda non solo non è stata ancora realizzata, ma continua a essere oggetto di campagne di ripensamento di cui il “partito del No” porta la totale responsabilità.

Secondo i dati dell’Ance, ci sono 270 opere pubbliche bloccate, per un valore di 21 miliardi che si aggiungono alle 670 che sono state certificate dal ministero dei Trasporti come definitivamente «incompiute». E come si fa a pensare che siano messe in sicurezza le tante strutture del nostro territorio se per terminare un’opera del valore di 100 milioni ci vogliono in media 15,7 anni? In queste ore esponenti del governo parlano dell’impellente necessità di una mappatura delle opere grandi e piccole e del loro stato di salute, ma in questi primi mesi di tutto si è sentito parlare, dall’emergenza migranti che non c’è (almeno non nei termini di cui si dice) ai vaccini passando per il ritorno della naia, e di altro ci si è occupati, a cominciare dai vertici della Rai, meno che di quello che ora, sull’onda dell’emozione e dell’attenzione mediatica, si definisce come prioritario. Inutile, anzi criminoso, piangere dopo, senza aver fatto nulla prima.