Retail, chiusura festiva negozi: a volte ritornano

di Renato Cavalli, Presidente  Prassicoop

 

Periodicamente ritorna di attualità i temi degli orari di apertura e delle chiusure festive dei negozi, in occasione di lunghi dibattiti sulla modifica, in ampliamento o in restrizione delle relative normative.

La normativa attualmente vigente,  di massima liberalizzazione è ora sotto tiro a seguito della presentazione di una  proposta di legge da parte dell’On. Saltamartini, e di altre proposte da parte dei 5 stelle, del PD e del Consiglio Regionale delle Marche tese a reintrodurre l’obbligo di chiusura domenicale e festiva. Il Vice Presidente del Consiglio Di Maio ha colto la palla al balzo per riavviare la discussione parlamentare sui progetti depositati in Parlamento, con l’intento iniziale di reintrodurre la chiusura obbligatoria dei negozi, poi ridimensionato a una proposta di turnazione che garantisca l’apertura festiva del 25 % dei negozi.

Sull’argomento si è scatenato un dibattito, molto simile a una rissa, purtroppo condotto su basi più  ideologiche che razionali, in cui sono state riesumate considerazioni che a nostro avviso si riferiscono ad un’Italia che non esiste più.

E’ innegabile che fare acquisti la domenica o nei giorni festivi è ormai divenuta un abitudine estremamente diffusa tra gli Italiani, praticamente un’abitudine consolidata, rinunciare alla quale, specialmente per una  imposizione di legge,  sarebbe vissuta dagli interessati come una grave interferenza nella propria vita privata, se non una grave violazione dei propri diritti.

Il numero di Italiani che, almeno occasionalmente, effettuano acquisti  la domenica e nei giorni festivi si aggira intorno ai 12 milioni. Tenuto conto che non tutti gli italiani fanno acquisti (ci sono i bambini, i paralitici, i carcerati, i ricoverati in ospedale, gli anziani che non escono quasi mai di casa, ecc.), se ne deduce che quasi un terzo dei consumatori  Italiani  fa spese la domenica o nei festivi, forse più di quelli che vanno a messa. O consideriamo che l’Italia è  un paese di pericolosi e viziosi devianti, che lo Stato ha il dovere di redimere, oppure prendiamo atto che non è compito né diritto dello Stato decidere come i cittadini debbono passare le proprie festività.

Naturalmente l’apertura dei negozi (come quelle di tante altre attività  per cui non si scandalizza nessuno) coinvolge molte categorie di persone e di interessi, le cui esigenze vanno equamente compenetrate ed equilibrate.

A CHI INTERESSA?

Cerchiamo quindi di individuare quali sono gli “stakeholders” interessati a questa questione:

  • La generalità dei consumatori, interessati a disporre della massima possibilità di scelta nelle proprie alternative di acquisto, nonché nelle modalità di uso del proprio tempo
  • Una certa parte della generalità dei cittadini, interessati a promuovere e proteggere determinati modelli di comportamento sociale per tutti i cittadini, indipendentemente dal gradimento di tale modello  da parte degli interessati
  • Gli operatori della media e grande distribuzione, in grado di organizzarsi per orari molto estesi  e aperture festive
  • I piccoli operatori commerciali, per i quali è difficile adattarsi ad orari e giornate di apertura molto estesi
  • I lavoratori delle attività commerciali
  • Gli investitori, anche esteri, che mettono i loro capitali in grandi strutture e/o centri commerciali.

Ogni categoria di stakeholder ha una diversa posizione sulla questione, ritenendo che vada, più o meno a ragione, in direzione favorevole o contraria ai propri interessi.

Tentiamo di comprendere quali sono gli interessi realmente in gioco, cercando di distinguere le problematiche delle aperture festive da quelle delle aperture 24/24.

CONSUMATORI

E’ evidente che per la generalità dei consumatori  la libertà di aperture festive e di orario prolungato porta soltanto vantaggi, in quanto offre una serie di opportunità che il consumatore è libero di utilizzare o meno, senza dovere sostenere costi aggiuntivi. Gli acquisti nei festivi fanno ormai parte di abitudini consolidate, a cui presumibilmente i consumatori non vorranno rinunciare, mentre gli orari 24/24 hanno una diffusione molto più limitata, e costituiscono un “plus” del quale parecchi consumatori usufruiscono occasionalmente, ma in linea generale some occasione complementare, che non ha ancora modificato significativamente le abitudini di acquisto della generalità degli Italiani.

Per molti utenti gli acquisti nei festivi costituiscono semplicemente una opportunità extra, ma sempre più, per determinate categorie, finisce a essere un’occasione preziosa che permette di distribuire meglio il proprio tempo. Un caso tipico è quello delle donne che lavorano e contemporaneamente debbono mandare avanti la famiglia, e quindi hanno pochissimo tempo per gli acquisti durante la settimana.

La ripartizione della clientela su più giornate (anche se il numero totale delle visite complessivamente aumenta) comporta una minore concentrazione nell’affluenza dei clienti per unità di tempo, e quindi un minore fabbisogno di parcheggi e la possibilità di servire un numero maggiore di clienti a parità di superficie. L’insieme di questi fattori nel tempo consentirà una minore incidenza dei costi immobiliari sul fatturato, oltreché, nelle nuove realizzazioni, una minore quantità di superficie per raggiungere lo stesso risultato, e quindi un minore consumo di suolo.

Nel caso particolare dei centri commerciali si aggiunge l’elemento della multifunzionalità, che consente di unire in un solo spostamento le attività di acquisto con quelle di trattenimento (es. cinema) e di ristorazione, con nuove funzioni che vanno affermandosi (edutainment, acquisti esperienziali), che richiedono tempi più lunghi del semplice “fare la spesa” e quindi possono essere svolte con maggiore serenità e tranquillità nei giorni festivi, proprio per il maggiore  tempo a disposizione.

Va tenuto conto che i centri commerciali sono ormai diventati un luogo di socializzazione, anche molto accessibile economicamente, perché è possibile passarvi del tempo senza alcun obbligo di fare acquisti, e godere spesso di occasioni di attività culturali, ricreative o sportive gratuite.

Questo vale in particolare per i ragazzi e gli anziani, per i quali i luoghi tradizionali di socializzazione (circoli, oratori e simili) sono sempre meno e sempre meno attrattivi , perché le parrocchie i centri sociali hanno sempre meno di risorse e quindi fanno fatica ad affrontarne la gestione e la manutenzione.

La presenza in molti centri si spazi e attrezzature di gioco (anche gratuite) per i bambini è una risorsa non indifferente, e costituisce un’ottima occasione per passare del tempo insieme per tutta la famiglia.

L’elevato livello di sicurezza presente nei centri commerciali è un fattore importante non solo per la tranquillità degli adulti, ma garantisce uno dei pochi posti che i ragazzi possono frequentare anche da soli in piena tranquillità, ed è chiaro a tutti come per i genitori sia un grande sollievo potere sapere che i loro ragazzi hanno dei posti dove possono passare il tempo in un ambiente sicuro e protetto, senza il rischio di incidenti, cattivi incontri e altro.

CITTADINI IN GENERE

Si possono  individuare grosso modo sue diversi “partiti” contrari alle aperture festive, formati da soggetti avversi alla grande distribuzione in generale ed ai centri commerciali in particolare: i conservatori e gli anticonsumisti.

I CONSERVATORI sono soggetti in generale ostili (o spaventati) dalle novità che non vedono di buon occhio qualunque cosa che porti a una modifica delle abitudini e dei ritmi a cui sono abituati. Per queste persone (che non generalmente coincidono con soggetti “politicamente” conservatori) ogni deviazione dal modello sociale a cui sono abituati costituisce un pericolo e una insicurezza, e quindi si oppongono ai cambiamenti anche se questi non li toccano obbligatoriamente, ma costituiscono soltanto una diversa opportunità a cui ognuno è libero di adeguarsi o meno.

Le “argomentazioni” di questi soggetti sono molteplici. Ne elenchiamo qualcuna a titolo esemplificativo.

La domenica è fatta per andare a messa e poi passare il tempo in famiglia, e i negozi aperti nelle festività costituiscono una mancanza di rispetto ai valori tradizionali, e tendono a disgregare l’unità familiare.

A questo rispondiamo semplicemente che non è vero. Mediamente una messa dura meno di un’ora, per cui nell’arco di una giornata chi vuole andare a messa può trovare tutto il tempo per andarci il sabato o nel resto della giornata. Chi non vuole andarci (e sembra che ormai sia la maggior parte degli Italiani), non ci va indipendentemente dal fatto che i negozi siano aperti o meno. Non si capisce perché la stessa opposizione non viene esercitata nei confronti di altre attività che possono mettersi in concorrenza per occupare il tempo delle persone (partita, televisione, cinema, passeggiate, ecc.). Inoltre non tutti sanno che alcuni centri commerciali hanno iniziato a mettere a disposizione degli spazi al loro interno (di solito una sala cinematografica) per lo svolgimento di funzioni religiose. Per ora sono pochi ma è una tendenza che crescerà se il pubblico dimostrerà il proprio interesse.

Esiste poi una percentuale di Italiani a cui non interessano questi valori, per i più svariati motivi, e non è compito della Stato obbligarli ad allinearsi ai valori di quella che ormai non è più nemmeno una maggioranza.

La domenica è un momento di ritrovo di tutta la famiglia insieme, magari per il pranzo della festa, e i negozi aperti nelle festività rendono difficile incontrarsi e stare insieme.

Il pranzo domenicale in famiglia è un valore positivo per moltissime persone, ma può essere una atroce condanna per altri. Ancora una volta, gli acquisti in generale non sono una funzione che riempie l’intera giornata, e quindi chi vuole andare a fare shopping  può benissimo farlo prima o dopo il pranzo di famiglia.

Se invece si tratta di acquisti impegnativi che richiedono molto tempo e lunghi spostamenti (esempio gli acquisti di mobili, o le visite agli Outlet) non esistono per la maggioranza dei comuni mortali alternative concrete agli acquisti festivi, perché non tutti hanno l’intero sabato libero o possono prendersi un giorno di ferie per lo shopping.

Al contrario, si sta sempre di più sviluppando la tendenza di abbinare le viste agli shopping center al consumo di pasti (magari economici, ma molto divertenti per i bambini),magari seguiti o preceduti dalla visione di un film (spesso in compagnia della famiglia). Non solo è una soluzione interessante per passare tempo insieme alla famiglia, ma è anche un’occasione per liberare le mamme o le nonne che ancora lo fanno, dall’onere del superlavoro domenicale di cucina ( i maschietti sono convinti che fare la cuoca e la sguattera tutte le domeniche sia il sogno di tutte le donne, ma per cortesia, provate a chiederlo alle mamme o alle nonne).

Il mondo sta cambiando, e specialmente nelle grandi città il numero di nuclei familiari di un solo componente è in continua crescita. Sembra che a Milano sia intorno al 50% ed è destinato ad aumentare con l’invecchiamento della popolazione. Qual è la socializzazione familiare che il commercio festivo sottrae a queste persone?

GLI ANTICONSUMISTI sono invece una categoria forse più “politicamente” etichettata, quali ex sessantottini, radical chic, amanti della cucina alternativa, ecc. Queste persone sono convinte che qualunque occasione di acquisto sia una spinta più o meno corruttiva verso il consumismo, definiscono i centri commerciali come “templi del consumismo” (chissà perché, invece, durante la settimana vanno bene), ma mangiano e consumano comunque più o meno come gli altri, ma forse si sentono in colpa per questo e quindi debbono trovare un nemico da demonizzare.

Evidentemente loro ritengono di non cedere  facilmente alle tentazioni del consumo, ma sono convinti che gli altri non abbiano questa capacità e quindi vanno tenuti lontani dalle tentazioni da qualche intervento dello Stato.

Una delle principali critiche degli anticonsumisti è molto simile a quella dei conservatori, ma rivolta ad altri obiettivi. L’apertura domenicale sottrae tempo non alla messa o ai pranzi in famiglia, ma alla cultura, alle passeggiate, allo sport e simili e incentiva le spese inutili e non meditate, gli sprechi e l’accettazione acritica del modello consumistico. La risposta è simmetricamente simile: anche se i negozi sono aperti, nessuno mi obbliga ad andarci, e se ci vado nessuno mi obbliga a fare acquisti avventati o sconsiderati. Anzi, se acquisto la domenica con più calma, posso fare acquisti più ” saggi” e meditati, e quindi meno ” consumistici”. Comunque, gli acquisti festivi non sono l’unica alternativa al comportamento “etico” auspicato dagli anticonsumisti. Ad esempio c’è il calcio che assorbe molto del tempo festivo degli Italiani, ma nessuno si sogna di dire di abolire le partite la domenica. Anzi, il calcio è molto più assorbente, perché mi invade anche la casa tramite la televisione, ma il fatto che ci siano le partite non mi obbliga ad andarci, e per fortuna per la televisione c’è quel presidio fondamentale della democrazia che è il telecomando.

Si dimentica invece che i giovani vanno educati e accompagnati al consumo. Questo e’ un compito delle famiglie. Una delle cose che le famiglie possono e dovrebbero fare insieme è insegnare ai figli ad acquistare con giudizio, e l’apertura festiva dei negozi può essere un’ottima occasione per  accompagnare i ragazzi a fare acquisti e “insegnare” loro a spendere.

Una considerazione comune alle proposte di entrambe queste categorie , indipendentemente dai contenuti proposti dagli uni o dagli altri, e quindi dalle mere convenienze, è di natura etico- politica. Spetta o no allo Stato decidere come I cittadini debbono passare il loro tempo. Cioè, in parole povere, vogliamo o no uno Stato etico ?

LA DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA

La grande e la media distribuzione si sono in maggioranza dichiarate a favore delle aperture domenicali o festive (aperture anche se meno unanimemente di quando è iniziata la liberalizzazione), sostenendo che generano un aumento di fatturato e di occupazione. Il fatto certo è che la distribuzione organizzata ha aumentato i posti di lavoro (anche se in gran parte si tratta di lavoro più o meno precario), mentre il fatturato in questi ultimi anni, come fanno notare i rappresentanti del piccolo commercio, non è cresciuto. Il problema è, in un momento in cui la crisi economica è  tutt’altro che alle spalle, se la riduzione del giro di affari sarebbe stata minore o maggiore qualora i negozi fossero chiusi la domenica?.

Non tutte le aziende della grande distribuzione sono a favore delle aperture domenicali e festive. In generale Federdistribuzione è a favore, il movimento cooperativo è possibilista, con Novacoop nettamente a favore e Coop Lombardia e UniCoop  Firenze che dicono “apriamo quando ne vale la pena”, e Eurospin nettamente contrario alle aperture..

Generalmente la distribuzione organizzata ha i numeri e le caratteristiche per reggere le sfida delle aperture festive e anche degli orari 24 su 24, ma non necessariamente per tutti si tratta della soluzione più conveniente. In questi anni di liberalizzazione quasi tutti gli operatori hanno sfruttato al massimo le facoltà di apertura, in base al criterio prudenziale del “se lui apre devo aprire anch’io, se no mi frega i clienti” Pochi hanno rinunciato alle facoltà di apertura, anche se ora incominciano a dire che magari le loro esigenze sono diverse, ma tanti sperano sempre che ci sia una legge che imponga a tutti la soluzione che loro preferiscono, anziché accettare di giocarsela scegliendo, in un quadro di autodeterminazione, l’orario più confacente alle proprie caratteristiche aziendali.

La Grande Distribuzione (come di fatto fanno molti dei piccoli) deve trovare il coraggio di fare delle decisioni su misura delle caratteristiche e le localizzazioni dei singoli punti di vendita, rinunciando all’istinto di gregge di fare quello che fanno tutti.

Coop ha iniziato a farlo, aprendo nei festivi soli in determinati casi e magari con orari ridotti. Credo che stare aperti sono quando l’afflusso di clientela è elevato eviterebbe di aumentare inutilmente i costi di personale, migliorano o non danneggiando i risultati di bilancio, e migliorando i rapporti con il personale.

IL PICCOLO COMMERCIO

Il piccolo commercio è il più ostile alle aperture festive, perché di solito non ha le risorse, economiche e umane necessarie a sostenere tempi di apertura così lunghi. I piccoli commercianti accusano la grande distribuzione di essere responsabile dei loro problemi e dei fenomeni di desertificazione commerciale, la cui consistenza reale è molto discutibile, almeno in base a ai dati ISTAT e a quelli regionali.

I motivi per cui i piccoli negozi faticano a tenere il passo sono molteplici, ma il primo, a mio avviso, rimane sempre la crisi dei consumi che non riescono a ripartire. Un grosso ruolo lo giocano anche la trasformazioni urbanistiche, lo svuotamento di tanti centri storici, la collocazione extraurbana della grande distribuzione, e quindi in generale una collocazione dei punti di vendita non più confacente alle esigenze del mercato, e non idonea a generare effetti di sinergia.

Il problema non si risolve riducendo le capacità concorrenziali delle grandi strutture e dei centri commerciali, ma dando ai piccoli maggiore competitività attraverso la riduzione dei canoni immobiliari, il miglioramento dell’accessibilità, le politiche promozionali sinergiche e coordinate, e anche riportando le medie e grandi strutture nei centri urbani (in particolare i centri commerciali), generando sinergie e consentendo anche ai piccoli di beneficiare delle capacità di attrazione e di generazione di eventi della Grande Distribuzione Organizzata. In quest’ottica una gestione strategica delle aperture festive può rivelarsi un’opportunità più che una minaccia.

I LAVORATORI DEL COMMERCIO

Il vero anello debole della catena sono i lavoratori del commercio (considerando tali anche i gestori in proprio di piccole attività).

Sono stretti tra l’incudine di rischiare di perdere il posto (o gli straordinari) in caso di divieto di apertura e il martello di dovere accettare condizioni di lavoro pesanti o pesantissime, al limite della legalità, che però per talune categorie costituiscono una preziosa integrazione al reddito (o tutto il reddito) di cui non possono permettersi di fare a meno. Si stima, solo nelle GD alimentare, che l’obbligo di chiusura farebbe perdere almeno 40 mila posti di lavoro (più o meno buono che sia). Le norme di legge sulla maggiorazione retributiva sono applicate solo in pochi casi, e spesso la realtà è diversa da quella che risulta sulla carta.

In realtà non è una questione di “cattiveria” degli imprenditori, ma del fatto che, in mancanza di controlli, le aziende sono quasi costrette, per reggere la concorrenza, ad applicare ai lavoratori le peggiori condizioni retributive e gli orari più lunghi possibili (vi ricordate la famosa legge di Gresham “la moneta cattiva scaccia quella buona”.

Si tratta di una questione di rapporti sindacali, che compete all’ambito del rapporto tra le singole aziende e i lavoratori. Sicuramente, se ci fossero maggiori controlli, le retribuzioni e le condizioni di lavoro in genere verrebbero spinte verso livelli più accettabili. Certamente ci sarebbe un aumento dei costi del lavoro (e anche della capacità di spesa dei lavoratori), ma questo, se ben gestito, potrebbe portare a una diversa distribuzione delle aperture e degli orari, consentendo di aprire quando veramente ne vale la pena, e quindi di riequilibrare le modificazioni di fatturato e quelle di costo del lavoro. In pratica l’obiettivo dovrebbe essere di mantenere fermi i costi e ricavi totali, riducendo le ore di lavoro e le aperture non necessarie, con una politica di relazioni sindacali più moderna ed equa.

L’importante è di evitare una regolamentazione obbligatoria degli orari che, portando a un appiattimento, farebbe continuare l’attuale situazioni di “tutti aperti perché il vicino è aperto”. La differenziazione poterebbe a un uso più razionale delle risorse (personale, spazi, costi energetici) e quindi a un migliore rapporto costi benefici, a condizione che le aziende affrontino il problema con coraggio e creatività e che si arrivi veramente ad affrontarlo congiuntamente tra operatori e sindacati.

L’altro problema è quello della “scomodità” esistenziale per i lavoratori del commercio di lavorare anche la domenica. Mi sembra un problema meno importante, sia perché i lavoratori del commercio non sono gli unici a lavorare nei festivi, sia perché una politica retributiva più equa renderebbe meno sgradevole e problematico il lavoro festivo.

GLI INVESTITORI

Le moderne strutture commerciali difficilmente sono di proprietà dei retailer che vi operano. I costi di realizzazione di grandi strutture sono talmente elevati, i tempi di attivazione talmente lunghi e le capacità gestionali richieste talmente complesse da richiedere necessariamente degli investitori specializzati, dotati del necessario know how e di sufficienti capitali. In Italia soggetti di questo tipo non abbondano, ed è giocoforza aprire le porte a investitori esteri, i quali però rifuggono dalle alchimie delle nostre normative, della burocrazia e dei condizionamenti politici, e detestano l’incertezza, operando con programmi che richiedono necessariamente pianificazioni di lungo periodo.

Perciò il solo annuncio della possibilità di una modifica restrittiva degli orari ha messo in allarme gli investitori, in particolare i Fondi stranieri, per il duplice motivo di introdurre un elemento di incertezza su un argomento che sembrava ormai stabilizzato, e di ridurre comunque il valore capitale degli asset per i quali si prevedrebbe una minore intensità di utilizzazione e una minore resa.

Già alcuni operatori, che stavano per effettuare cospicui investimenti in Italia, dell’ordine di decine o centinaia di milioni di euro, si sono allarmati e hanno messo in dubbio l’avvio di iniziative già programmate, quanto meno rinviandole a quando le cose saranno più chiare.

Questo fa male al commercio e fa male all’Italia. E’ questo che vogliamo?

CONSIDERAZIONI TECNICHE

COMUNI TURISTICI

La limitazione delle aperture ai Comuni “turistici” presenta una serie di problematiche non indifferente:

I Comuni turistici sono molto diversi tra di loro, e non hanno tutti la stessa valenza commerciale, né  necessariamente necessitano genericamente di un potenziamento di offerta commerciale, laddove il tipo di turismo attratto non è costituito da soggetti interessati ad acquisti che vanno oltre i fabbisogni di generi di conforto e ai ricordini. In un Comune piccolo in cui l’unica attrazione turistica è  data da una chiesetta in mezzo ai campi o un piccolo scavo archeologico nessun  ha l’esigenza di comprarsi  lì i mobili o i vestiti. Al contrario, se un negozio sito in quel Comune avrà  il vantaggio competitivo di aprire la domenica e quelli del Comune vicino no, si creerà una specie di distorsione della concorrenza, col rischio di indurre la collocazione dei negozi in funzione di tali vantaggi “artificiali” e non della validità oggettiva della location.

Non esistono criteri univoci per la definizione dei Comuni  turistici, alcune Regioni aveva dichiarato turistici tutti i Comuni del territorio, mentre altre avevano stabilito criteri estremamente selettivi

Il meccanismo dei Comuni turistici tende a congelare nel tempo le situazioni, senza tenere conto che le grandi strutture commerciali diventano loro stesse poli di attrazione turistica, ma non sono mai state prese in considerazione nella individuazione dei Comuni turistici. Con questo sistema sono stati considerati non turistici Comuni con flussi commerciali di milioni di visitatori all’anno.

ROTAZIONI

Fissare una turnazione per le aperture porterebbe a livelli di conflittualità notevoli, perche non tutti i giorni festivi hanno lo stesso “valore” commerciale, e si scatenerebbero guerre per avere il turno di apertura nelle festività migliori

APERTURE CONCORDATE CON I COMUNI

Con la precedente normativa uno dei pochi meccanismi per ampliare le giornate di chiusura era la stipula di accordi con i Comuni con cui venivano concesse aperture aggiuntive in cambio di impegni delle strutture commerciali a svolgere o finanziare eventi, manifestazioni, iniziative di interesse generale.

In base al vecchio detto “piuttosto che niente è meglio piuttosto”, gli operatori avevano largamente utilizzato questo strumento, che rimaneva comunque una limitazione alla libera iniziativa degli imprenditori.

La liberalizzazione delle aperture ha notevolmente snellito le procedure, e liberato gli imprenditori dal condizionamento del “gradimento politico” del Comune per l’iniziativa svolta o sponsorizzata, consentendo una maggiore libertà d’azione e una maggiore trasparenza.

Uno degli aspetti negativi era che il Comune, oltre a potere selezionare le attività promozionali in base al “gradimento politico”, quando non a condizionamenti meno confessabili, spesso poteva limitare le iniziative se non tutti gli operatori del territorio erano in grado o volevano farle, finendo di fatto a costringere tutti a stare al passo dei più pigri o dei meno organizzati.

Oggi, dopo l’introduzione delle procedure di SCIA, molti Comuni hanno di fatto smantellato o pesantemente ridimensionato gli uffici commercio, per cui si troverebbero in difficoltà a svolgere questo ruolo promozionale.

Di conseguenza gli operatori ritengono certamente preferibile potersi scegliere le aperture senza condizionamenti e trattative spesso estenuanti, ferma restando la piena facoltà degli operatori di concordare con i Comuni iniziative di interesse sociale o generale. Si tenga conto anche che molte Regioni hanno introdotto normative che, per consentire il rilascio delle autorizzazioni di grandi strutture, richiedono agli operatori, a titolo di “onere aggiuntivo alle urbanizzazioni” la realizzazione di opere di interesse generale o la messa a disposizione gratuita di enti e associazioni di spazi per lo svolgimento di eventi o manifestazioni o il finanziamento di iniziative varie. Aggiungere a questi oneri ulteriori carichi in cambio delle aperture festive rischia di diventare un ulteriore balzello a carico degli operatori, magari sopportabile per le strutture più grandi ma molto oneroso per i piccoli commercianti.

IMPATTO SUL COMMERCIO ELETTRONICO

Gli operatori concordano sul fatto che limitare le chiusure festive finirebbe a incentivare notevolmente le vendite on line, aggravando ancora i bilanci degli operatori tradizionali, e riducendo ulteriormente la frequentazione da parte dei consumatori dei negozi, piccoli o grandi che siano, riducendo quindi la funzione di socializzazione che il commercio comunque svolge, e la cui mancanza (oltre la non controllabilità fiscale) costituisce il più grosso limite del commercio on line rispetto agli interessi generali della comunità.

Qualche proposta pensava di potere bloccare nei festivi anche la vendite on line, ma si rivelerebbe una grida manzoniana, in quanto nessuno sarebbe in grado di fare rispettare il divieto, vista l’estrema facilità di dirottare le ordinazioni su siti esteri non controllabili.

L’ultima novità, preoccupante, è che risulta che anche per le vendite on line alimentari, la domenica è il primo o secondo giorno per volume di vendita. Questo da una parte significa che bloccare le aperture dei negozi in giornate che sono “grasse” per l’on line è un regalo al commercio elettronico, e dall’altra che la tendenza dei consumatori a fare acquisti la domenica si sta consolidando in tutte le categorie, compresi i clienti più “smart”, e che quindi il blocco del commercio domenicale e festivo sarebbe una vera e propria “violenza” ai consumatori, oltre a sottrarre volume d’affari ad attività che bene o male le tasse le pagano, e quindi a ridurre gli introiti dello Stato.

Comunque, il fatto che gli acquisti festivi siano scelti anche dai consumatori dell’on line significa che esiste una tendenza a ricercare dei momenti di acquisto più rilassati e meditati, e questo vale anche per i consumatori “brick & mortar”.

CONCLUSIONI

Evitare le esagerazioni è sempre una scelta ottima. Non tenere conto dei conflitti di interessi che ruotano interno alla questione degli orari sarebbe poco saggio e poco democratico.

Senza chiamare in campo obblighi o divieti europei (che in realtà non esistono), bisognerebbe tenere conto almeno di una quota base di interessi comuni da rispettare: da una parte i principi di libertà di organizzazione dell’impresa (cosa ben distinta dalla liberalizzazione generale delle realizzazione di nuove strutture) e di libera scelta dei consumatori su come impiegare il proprio tempo e le proprie risorse. Dall’altra la presenza di alcune festività di alto valore simbolico è da tenere in considerazione, ma non devono diventare dei blocchi insormontabili (chissà perché nessuno ha mai messo in discussione l’apertura degli alimentari la mattina di Natale? Forse rende troppo per toccarla?)

Si potrebbe quindi ragionare (anche sulla scorta di proposte di legge avanzate nella scorsa legislatura su cui si era iniziato a consolidare un certo consenso),in particolare quella del PD sull’idea di individuare un numero abbastanza limitato di festività ad alto valore simbolico (civile o religioso), una dozzina, tra le quali gli operatori debbano sceglierne una quota (es metà) in cui sia obbligatoria la chiusura. L’importante è che la scelta sia lasciata il singolo operatore, con la facoltà di optare per un numero maggiore di giornate (o mezze giornate ) di chiusura, limitando la facoltà dell’Amministrazione di stabilire delle turnazioni soltanto nel caso che le scelte spontanee degli operatori finiscano a determinare, in un determinato comune, una chiusura totale dei negozi per più di due o tre giorni consecutivi.