Job Satisfaction

Di James Hansen per Mercoledì di Rochester 
 La nozione secondo cui il lavoro dovrebbe piacere o ’stimolare’ in qualche modo è un’invenzione storicamente recente. Non era di certo una questione che si poneva chi ‘faticava’ prima nei campi e poi nelle fabbriche della Rivoluzione industriale. Ci si dava da fare e basta. Fino a prima della metà del secolo scorso, l’idea che il lavoro potesse e dovesse essere anche ‘emotivamente appagante’ – cioè fatto non solo per pagare i conti di casa (e forse lasciare qualcosa per una bevuta) – era semplicemente un nonsenso, almeno per la maggior parte della popolazione.Il concetto manageriale di Job Satisfaction nacque poco meno di un secolo fa, negli Stati Uniti, con la pubblicazione nel 1935 di un influente libro dallo stesso titolo – per l’appunto, “Job Satisfaction” – dell’educatore e ricercatore Robert Hoppock. Hoppock prese in mano la vecchia idea secondo cui “il lavoratore felice è più produttivo” – un ricalco dell’antica convinzione contadina che la vacca contenta dia più latte – e la utilizzò per un’indagine sistematica.Iniziò misurando la soddisfazione di un campione esteso di lavoratori attraverso un semplice questionario di appena quattro domande, di cui la seconda è rappresentativa: “Quale di queste affermazioni rispetta maggiormente la Sua idea sul cambiare il posto di lavoro?” Le alternative partivano da “Me ne andrei via all’istante se potessi” per arrivare a “Non cambierei questo posto con nessun altro” – passando, a metà della scala, per “Non ho urgenza di cambiare lavoro, ma lo farei se trovassi di meglio”.In sé, le scoperte che Hoppock fece non erano poi tanto eclatanti. Trovò, per esempio, che i lavoratori con mestieri maggiormente qualificati riferivano di essere più soddisfatti del proprio posto, come anche quelli più anziani e altri che avevano rapporti stretti di amicizia con i colleghi. Erano in fondo delle banalità: è stato alla fine il metodo impiegato la parte più influente della sua opera. Hoppock rese popolare il concetto secondo cui il lavoro che dà soddisfazione è degno di studio e passibile di misurazione – e, implicitamente, che potrebbe avvantaggiare anche l’azienda…Non è un caso che le idee sue e di altri ricercatori nel campo abbiano a lungo avuto maggiore influenza nei paesi anglosassoni, dalle economie più aperte e da una domanda di manodopera tendenzialmente maggiore. Dove invece il ‘posto’ – idealmente al caldo, seduto e, specialmente, ‘fisso’ – era un bene troppo prezioso da rischiare, i datori di lavoro sentivano meno la pressione di dover rendere i lavoratori ’soddisfatti’, perché – secondo loro – dovevano essere già contenti di poter mangiare regolarmente…

(Si ringrazia James Hansen per la gentile concessione )