Nota Diplomatica -Real Geopolitics

di James Douglas Hansen

Il fisico toscano Cesare Marchetti è uno studioso forse più onorato all’estero che in

Italia. È noto per molte cose, ma oggi il suo nome ricorre particolarmente per il “Marchetti Constant”,

l’osservazione che per gli esseri umani, ancora legati “alla caverna” della preistoria, sia un istinto basilare

non allontanarsi per il lavoro quotidiano molto più di mezz’ora da casa—un’ora tra andata e ritorno.

Il Constant varrebbe indipendentemente dal mezzo di trasporto utilizzato: a piedi, a cavallo,

in auto, in tram o treno pendolari. Ovviamente, molte persone—per necessità—superano il

limite, ma è un fatto di patologia urbanistica. Marchetti ha dimostrato che, dai primordi, la

massa della gente si comporta comunque secondo la regola. Così, fino a tutto il Medioevo,

quando il “pendolarismo” era a piedi, i “grandi” centri non superavano un diametro di circa

cinque km, mezz’ora di marcia dalla periferia al centro per i più.

La dimensione massima urbana è dunque una funzione della velocità dei mezzi di trasporto più comuni.

Così, i più importanti centri—molto densamente popolati—cominciano ad allargarsi geograficamente

solo con l’introduzione dei primi, rudimentali, mezzi di trasporto di massa. I tram a cavallo, gli autobus,

le metro sotterranee, i treni pendolari e le auto ne hanno aumentato la possibile estensione territoriale.

Ma anche la più recente di queste tecnologie, l’autostrada, ha raggiunto il limite all’interno del centro

urbano. Ogni miglioramento viene “ingoiato” dal conseguente aumento del volume di traffico.

Marchetti scriveva negli anni Novanta, quando sembrava ancora possibile che i Governi potessero

compiere davvero rivoluzionari progetti pubblici. Immaginava che tecnologie allora emergenti, come gli

iperveloci treni Maglev in gallerie sottovuoto, avrebbero potuto allargare l’orizzonte geografico urbano al

punto di permettere un pendolarismo comune quotidiano per esempio, tra Casablanca e Parigi, legando

agglomerati distanti in singole unità funzionali. Con rare eccezioni, non è successo niente del genere. Si

sono create le megalopoli, ma con rattoppi più che zoppicanti. Esistono unitariamente sulla carta, ma nei

fatti sono solo enormi grumi di singole comunità non più interconnesse. Los Angeles è una macchia

unificata sulla mappa, ma da una parte c’è Beverly Hills e dall’altra Skid Row. Non sono “quartieri”, sono

universi autonomi, l’uno ricco e agiato, l’altro una triste imitazione del peggio Terzo Mondo.

Le megalopoli non sono città, sono nazioni, che sempre più esistono in autonomia negli stati che le

ospitano. Hanno interessi contrapposti rispetto ai territori circostanti. Così, Londra è in guerra civile

con l’Inghilterra per la Brexit, Parigi con la Francia dei gilet jeaunes della provincia per le tasse sul

carburante, le due coste urbanizzate degli Usa lottano con il vasto centro del Paese per Donald Trump.

Non c’è auto a guida autonoma che tenga. In città almeno, non c’è più dove costruire nuove strade. A

Manhattan si naviga bene con una mappa di cinquant’anni fa perché, a parte qualche strada di

scorrimento appiccicata ai bordi, non è cambiata la dispersione geografica—solo l’altezza dei palazzi,

sempre negli stessi spazi. Si sperava nel telelavoro da casa, ma i suoi limiti sono ormai noti. Qui ci

vorrebbe che qualcuno inventasse—in fretta—il teletrasporto istantaneo Star Trek. Lavoro a Milano,

ceno a Rio, dormo sulle spalle dell’Himalaya…

(  per  gentile  concessione  dell’ Autore)